ANIMALI NOTTURNI

Sopravvivere nella campagna lombarda, per le strade di Roma e sulla riviera romagnola non è facile, soprattutto di notte. Dieci notturni italiani intrisi di mistero, dieci storie i cui protagonisti si trovano faccia a faccia con vampiri, potenze infernali e segreti inquietanti che cambieranno le loro vite per sempre. Dalle antiche miniere della valle Aurina ai ridotti di Venezia del 1794, ogni storia offre uno squarcio su quel che, da secoli, ci osserva nel buio.

 

DUE VERSIONI DIFFERENTI

L’edizione cartacea di “Animali Notturni”, a differenza dell’ebook, contiene delle appendici con curiosità e divertissement dedicati alla narrativa dei vampiri.

LA MAPPA

I racconti dell’antologia sono tutti ambientati in Italia in periodi storici diversi, ma dove di preciso? Ecco una mappa e un elenco che possono chiarire in parte questi dubbi, per maggiori informazioni non resta che leggere “Animali Notturni”.

  • Lodi Vecchio (2018)
  • Roma (2017)
  • Valle Aurina (1995)
  • Campagna modenese (2023)
  • Rimini (1985)
  • Milano (1971)
  • Riviera romagnola (2018)
  • Venezia (1794)
  • Pavia (2023)
  • Napoli (2024)

VAMPIRI, BIBLIOGRAFIA MINIMA

Di seguito un elenco in ordine sparso di consigli di lettura a tema vampirico che mi sento di consigliare:

Per chi volesse approfondire l’argomento da un punto di vista saggistico da non perdere assolutamente i due volumi “Tutto Dracula” di Franco Pezzini.

ESTRATTO – Sai cos’è un famiglio?

Alberto uscì di casa all’alba per gettare la spazzatura. Indossava la tuta, la stessa che aveva messo per tutta la settimana. In casa poteva bastare ma all’aperto, a novembre, no, così vicino ai campi coperti di brina e allo scavo si sentiva come nudo. Avrebbe voluto rientrare ma Lara, che ancora aveva un lavoro, stava per uscire con i bambini per accompagnarli all’asilo e, quando era con loro, la vergogna diventava insopportabile.

Non avrebbero dovuto prendere la villetta fuori paese, lì attorno non c’erano nient’altro che campi ma da ragazzi si fanno tante cazzate… Si accese una sigaretta e fissò il bosco di betulle poco distante, tetro come un sepolcro.

Gli scavi erano là, roba romana, non le solite monete e anfore, roba importante, tutta sepolta sotto le radici delle piante. Un labirinto sotterraneo che si estendeva per centinaia di metri – scrivevano sul giornalino della parrocchia che gli infilavano nella posta ogni due settimane –, una villa patrizia grande forse più della Domus Aurea. Come facessero a saperlo le quattro pettegole che scrivevano sul giornalino della parrocchia era un mistero.

Sconfitto gettò la sigaretta oltre al cancello e rientro in casa.

Lara stava infilando il berretto a Luca, Micaela era già imbacuccata. Strizzati nei piumini a buon mercato di Decathlon sembravano due peluche. I loro sguardi pieni di ammirazione erano coltellate.

«Che farai oggi?» Gli domandò Lara.

«Le solite cose, devo fare un paio di telefonate per i colloqui».

«Coraggio, non ti abbattere».

«Qualcosa salterà fuori», disse lui sforzandosi di sorridere. «In ogni caso c’è ancora un po’ di disoccupazione».

«Riesci ad andare tu a prendere i bambini?»

«Non so», non ne aveva alcuna voglia.

«Non importa, vado io. Cerca di riposare un po’, non ci pensare troppo, il dottore…»

«Sì, lo so».

«Ti amo».

«Andate o farete tardi», disse lui.

«Ciao papà», cinguettarono i bambini salutandolo con le manine. Li osservò salire sulla Panda e rimase a guardare mentre Lara li allacciava ai seggiolini e poi imboccava la sterrata che portava in paese. E poi rimase solo in casa con il rumore del pendolo ereditato del padre di Lara. Le aveva lasciato quello e i debiti.

La mattinata la passò fissando la crepa sul soffitto sdraiato a pancia in su sul divano. Il saporaccio delle gocce non andava via. Si riprese soltanto quando suonarono alla porta e si costrinse ad andare ad aprire. Era Mario, il vicino, un ex–broker che aveva rilevato una vecchia fattoria di nessun valore e pretendeva di crescere il cotone in piena pianura padana. Era un cretino pieno di soldi.

«Me lo offri un caffè?» Gli domandò entrando in casa.

Alberto chiuse la porta.

«Ne hanno trovato un altro», disse Mario, aveva raggiunto la cucina, presa la caffettiera, riempita la cisterna d’acqua e riempito il filtro di caffè del discount. «Proprio nel campo davanti a casa tua, non hai visto niente?»

«No».

«Ma c’era la polizia, i lampeggianti, Cristo santo sono stati qui tutta la notte!»

«Ero impegnato», disse Alberto ripensando al divano, alle gocce e alla crepa sul soffitto.

«Il figlio dei Motta», disse Mario accendendo il fornello sotto la caffettiera. «Quindici anni. Conciato come gli altri».

«Sempre lupi?»

«Così dicono, ma io non ci credo. Mai visti lupi da queste parti, forse una volta ma oggi non esiste proprio. Qui c’è qualcosa di losco».

«E immagino tu sappia di cosa si tratti», disse Alberto arrendendosi.

«È lo scavo archeologico».

«Una maledizione?»

«Forse», disse lui. «Tipo quella di Tutankhamon».

«Cosa centrano i bambini?»

«Magari è una ritorsione, abbiamo disturbato il suo sonno e lui ammazza i nostri figli».

«Secondo me sono solo lupi», ribadì Alberto. «Il figlio dei Motta va spesso nel bosco a giocare con gli altri bambini del paese, li sento correre nei campi, fanno un casino del diavolo, a volte mi tirano i sassi contro la porta, mi hanno anche rotto una finestra. Magari stavano giocando a nascondino, lui si è trovato isolato e i lupi l’hanno aggredito».

«Ah, sì?»

Alberto si strinse nelle spalle.

«E allora spiegami una cosa? Perché non l’hanno sbranato? Perché dissanguarlo e basta?»

«Non sono un esperto di lupi, tu sì?»

Mario prese le tazzine, si versò il caffè e diede quello che rimaneva ad Alberto: «Senti, vuoi fare una pazzia?»

«No».

«Questa notte».

«Cosa?»

«Andiamo a vedere lo scavo».

«No».

«Io e te. Mi porto i fucili, giusto per precauzione».

«No».

«Passo a prenderti verso le undici».

«Ho detto di no».

Alle undici e mezza di notte Alberto stava attraversando in tuta un campo di mais con il fucile a tracolla e la sigaretta in bocca. Davanti a lui Mario, armato allo stesso modo, faceva strada illuminando con la torcia le file di stocchi ghiacciati che sbucavano dal fango. Sui campi galleggiava una nebbia ghiacciata, sopra la nebbia il cielo senza stelle e la luna era color bitume.

«Perché non torniamo di giorno?» Domandò Alberto. «Non si vede un accidenti».

«Perché se ci beccano quelli della soprintendenza sono cazzi».

«Se ci attaccano dei lupi ci conviene darcela a gambe».

«Non troveremo alcun lupo».

«E allora perché siamo armati?»

«Qualcosa c’è ed è anche pericolosa, è golosa di bambini, con il figlio dei Motta siamo già a tre. Noi siamo adulti e dovremmo essere al sicuro, ma non si sa mai».

«Ci sarà la polizia a fare la guardia allo scavo».

«Figurati! La stazione più vicina è a quindici chilometri e ci lavorano quattro poliziotti, li conosco tutti, non hanno tempo né voglia di fare la guardia a uno scavo archeologico».

«E quindi ci pensiamo noi, alla vecchia maniera».

«Esatto».

«Hai visto troppi film western».

«So il fatto mio».

Alberto avrebbe voluto ribattere perché aveva le chiappe ghiacciate ma ormai erano arrivati al bosco di betulle e, voltandosi, vide lontanissime le luci di casa sua. Da dove si trovava Lara e i bambini sembravano appartenere a un altro mondo, un mondo a cui lui forse non era più il suo. Uscirono dal fango, si arrampicarono sul terrapieno e si trovarono su un terreno sconnesso, pieno di buche e collinette. Mario fece luce attorno, poi illuminò una baracca di lamiera: «Quella è degli archeologi, la usano come deposito».

«Tu come lo sai?»

«Lo so e basta», disse lui dirigendosi verso la baracca.

Le betulle svettavano sulle loro teste, sulle cortecce crescevano rigogliose colonie di funghi e muschi. L’odore di foglie marce era insopportabile.

«Ecco», disse Mario illuminando l’avvallamento ai piedi della baracca. «Guarda un po’ che roba».

Gli archeologi avevano ripulito una lunga strada lastricata, ai bordi della strada muretti di mattoni dalle dimensioni irregolari scandivano la planimetria dell’ultimo piano di quella che doveva essere una grande costruzione ipogea. Qua e là nel terreno si aprivano voragini da cui scendevano nel buio scale ripide di mattoni sbrecciati, probabilmente gli accessi ai piani sottostanti della villa.

«Possibile che nessuno sapesse che qui c’era tutta questa roba?» Domandò Alberto stupefatto.

«Le vedi le betulle? Queste le hanno piantate molto tempo fa».

«Di certo non all’epoca dei romani».

«Quello no», ammise Mario. «Ma come mai tutti i terreni attorno a questo bosco sono stati coltivati e qui invece hanno lasciato delle piante? Li conosci i contadini, coltiverebbero persino l’autostrada se potessero». Mario scivolò nell’avvallamento e raggiunse la strada lastricata.

«Magari c’era qualche problema con la proprietà del terreno, roba burocratica, di catasto».

«Può darsi», disse Mario illuminando i segnalini numerati lasciati dagli archeologi. «Che fai? Non vieni?»

«A fare che?» Domandò Alberto. «Lupi non ce ne sono, robe strane nemmeno, torniamo a casa e dormiamoci su».

«Non sei curioso?»

«Non sono un tombarolo».

«Questa non è una tomba, è una villa patrizia».

«Se è sottoterra per me è una tomba».

«Be’, io vado e sono l’unico che ha una torcia. Riuscirai a tornare a casa al buio?»

No, non ci sarebbe riuscito senza rompersi una gamba in un fosso: «Diamo un’occhiata veloce e andiamocene». Con cautela si calò nello scavo e sentì subito che la temperature là sotto era diversa e così pure l’odore. C’era puzza di fango umido e il freddo si era fatto pungente. Visti da vicino quei muretti sembravano le dita di uno scheletro colossale.

Senza rendersene conto Alberto aveva consumato la sigaretta fino al filtro.

«Andiamo di sotto», disse Mario imboccando una stretta scala.

Alberto lo seguì facendo attenzione a dove metteva i piedi. La scala scendeva fino a uno stanzone vuoto, le pareti in mattoni erano infestate dalle erbacce, c’era puzza di chiuso e di putrefazione probabilmente dovuta ai tanti cadaveri dei topi sparsi qua e là. Il pavimento era franato in diversi punti. «Fai attenzione», disse Mario illuminando per terra. «Se caschi dentro uno di questi buchi non ti ritrova nessuno».

«È pericoloso», disse Alberto. «Torniamo a casa».

«Aspetta un momento», rispose Mario imboccando un lungo corridoio stretto. «Andiamo avanti ancora un po’, andiamo a vedere gli affreschi».

Il corridoio si allargava sempre di più fino a diventare un passaggio di proporzioni monumentali che terminava in uno stanzone rettangolare dal soffitto a botte, alto almeno quattro metri. Al centro dello stanzone c’era un’impalcatura per raggiungere il soffitto. Sulle restanti tre pareti dello stanzone si aprivano varchi rettangolari, tre ostruiti da trabattelli, uno sgombro. Sopravviveva sul soffitto uno strato d’intonaco bianco ornato con delicatissime decorazioni che rappresentavano processioni di gente con le toghe, soldati romani, senatori, tutti carichi di offerte e seguiti da schiavi. In testa alla processione un centurione porgeva in dono una corona d’alloro a una figura di donna senza testa a causa dell’intonaco scrostato.

«Forte, no?» Domandò Mario.

«Come facevi a sapere che qui c’erano questi?»

«Diciamo che non è la prima volta che ci vengo», rispose Mario. «Ma il bello deve ancora venire, andiamo», imboccò il vano occupato, secoli prima, da una porta che doveva essere alta il doppio di lui.

Alberto si ritrovò al buio e si affrettò a seguirlo. Si ritrovò in una sala circolare coperta da una cupola cassettonata alla cui sommità c’era un oculus che forse, in origine, puntava verso il cielo ma ora era tappato dalla terra e infestato da radici pendenti. Nei cassettoni della cupola c’erano bassorilievi che rappresentavano la luna e le stelle. A terra c’era un impressionante pavimento decorato a scacchiera con quadrati di porfido rosso, di marmo giallo e di granito egizio ben visibile sotto lo strato di polvere.

Al centro della sala c’era un sarcofago di pietra.

«Vieni a vedere» disse Mario illuminando il sarcofago. «Non è bellissimo?»

Alberto si avvicinò, sui lati del sarcofago c’erano elaborati bassorilievi che riproducevano scene di guerra e massacro. Su coperchio del sarcofago una donna era riprodotta distesa con le mani incrociate alla maniera dei faraoni, posata sul petto una corona d’alloro, gli occhi di pietra spalancati, vuoti, terribili.

«Non direi proprio bellissimo…» Disse Alberto.

«È la tomba di una dea».

«Dici?»

«Sai cos’è un famiglio?»

«No, non lo so».

«Non importa», disse Mario. «Scusami però, sul serio, mi dispiace, ma mi devi capire, a lei non si può dire di no, è un’ingorda, le piacciono i bambini. Ma non può lasciare cadaveri di bambini in giro come ai suoi tempi, qualcuno deve prendersi la colpa».

Alberto lo fissò cercando di leggere tracce di uno scherzo mal riuscito.

«Non fa niente, io il mio dovere l’ho fatto. Mi reggi un attimo questa?» Domandò Mario passando la torcia ad Alberto. Alberto prese la torcia e la puntò verso il soffitto incuriosito dall’oculus ostruito.

Il colpo di fucile rimbombò assordante, talmente forte da stordirlo, quando si riprese Alberto puntò la torcia verso Mario e lo vide a terra, con un buco al posto della faccia.

Urlando Alberto corse fuori dalla sala. Si lanciò verso il lungo corridoio che percorse a rotta di collo, poi le scale, poi la strada lastricata, incespicò sul terrapieno e uscì dallo scavo. Prese il cellulare dalla tasca ma era così fuori di sé da non riuscire a sbloccarlo, non riusciva a ricordare il codice, alla fine in preda al panico, si mise a picchiare contro la lamiera della baracca degli archeologi che scoprì essere aperta.

Conteneva tre cadaveri cianotici, adulti, con i caschetti da minatore ancora in testa.

Urlando nella speranza che qualcuno lo sentisse anche lì, in mezzo al nulla, si lanciò a tutta velocità verso i campi e verso casa, corse tra le betulle, ne centrò una, si ritrovò a terra intontito ma si rialzò, riprese a correre, il bosco era diventato una giungla fittissima che finì di colpo. Rotolò giù dal terrapieno nel campo di mais ferendosi con gli stocchi ghiacciati, perse la torcia, si ritrovò al buio e si rimise in piedi appoggiandosi al fucile.

Raccolse la torcia e fu in quel momento che la vide, una figura bianca nel campo a una decina di metri. Sembrava scivolare verso di lui, una donna magra con la faccia color gesso imbrattata di sangue e i capelli neri, raccolti sulla nuca. Qualunque cosa fosse era chiaro che non si trattava di un essere umano.

Alberto imbracciò il fucile, puntò e premette il grilletto ma l’arma non sparò. Ci mise un po’ a capire, poi capì che Mario gli aveva dato un fucile scarico e lui, come uno scemo, non aveva controllato.

Sai cos’è un famiglio?

Io il mio dovere l’ho fatto.

La donna gli passò accanto, la testa cinta da una corona d’oro a foglie d’alloro, le braccia scheletriche imbrattate di sangue fino ai gomiti, una dea della morte uscita dalla tomba. Lo superò e si inoltrò nel bosco di betulle.

Alberto attese che le gambe glielo permettessero e si alzò. Abbandonò il fucile e si mise a correre verso casa. Aveva perso le chiavi da qualche parte, scavalcò il cancellino, inciampò nei sacchi dell’immondizia, raggiunse la porta e la trovò aperta. Entrò e accese la luce.

«Finalmente», gli disse Lara. Era seduta al buio, in soggiorno. «La Signora ci ha detto che saresti arrivato presto, che peccato si sia fermata così poco…»

Riversi sul tappeto impregnato di sangue c’erano i cadaveri straziati di Luca e Micaela.

«Era così educata, una donna d’altri tempi», disse Lara notando lo sguardo sconvolto del marito. «L’ho invitata a entrare e lei ha fatto questo. Ora aspettiamo la polizia così tu potrai prenderti la colpa, non è meraviglioso?»

Alberto avrebbe voluto chiedere perché, ma non riuscì ad articolare nulla, il cervello aveva cessato di funzionare era diventato il centro di un dolore che si irradiava ovunque.

Lara sorrise amorevole: «Sai cos’è un famiglio?»

LUOGO E ANNO DI PUBBLICAZIONE
Lodi 2024
TIPOLOGIA DI STORIA
Antologia di racconti horror
ACQUISTA L'EBOOK
Amazon.it
ACQUISTA IL LIBRO

Leave a Reply